Scarica qui Schubert Trio nr. 1 in si bem magg op 99
Trio per pianoforte n. 1 in si
bemolle maggiore, op. 99, D. 898
Musica: Franz Schubert
- Allegro moderato (si bemolle
maggiore)
- Andante un poco mosso (mi
bemolle maggiore)
- Scherzo. Allegro (si bemolle
maggiore). Trio (mi bemolle maggiore)
- Rondò. Allegro vivace (si
bemolle maggiore)
Organico: pianoforte, violino, violoncello
Composizione: 1828 circa
Prima esecuzione: Vienna, residenza di Josef von Spaun, 28 gennaio 1828
Edizione: Diabelli, Vienna, 1836
Composizione: 1828 circa
Prima esecuzione: Vienna, residenza di Josef von Spaun, 28 gennaio 1828
Edizione: Diabelli, Vienna, 1836
Guida
all'ascolto 1
Del tutto
alieno da criteri di mimesi stilistica, il Trio D898 mostra invece un
autore che ha già da anni definito una propria poetica e un proprio linguaggio
espressivo; poetica e linguaggio espressivo che propongono qualcosa di
originale e di diverso rispetto ai canoni del classicismo di Haydn, Mozart e
Beethoven. L'Allegro moderato si apre con un primo tema elegante e ricco
di slancio anche grazie alle ripetute terzine: lo conducono gli archi, che
suonano ora all'unisono ora in dialogo imitativo. Ciò che accade dopo
l'enunciazione del tema è già di per sé indice di una rilassatezza della
struttura formale che sarebbe estranea a un autore classico. Invece di una
transizione al tema secondario, così come sarebbe lecito attendersi, un breve
passaggio cromatico porta a una ripetizione del primo tema, ora condotto dal
pianoforte. Un analogo passaggio pianistico, suggellato da un intervento del
violoncello solo, conduce poi al secondo tema, cantabile, suonato dagli archi e
quindi ripreso dal pianoforte. Una battuta di pausa serve a introdurre la
chiusa cadenzale dell'Esposizione, basata sulle teste del secondo e quindi del
primo tema. Lo Sviluppo è articolato in due arcate e, come spesso in Schubert,
ha un andamento digressivo: l'arcata iniziale consta di una
citazione-elaborazione del primo tema in varie tonalità, quella successiva si
fonda sulla citazione-elaborazione del secondo tema, ora combinato con le
figure di terzina del primo tema. A ondate successive il discorso musicale
raggiunge il climax del movimento (fortissimo), poi la sonorità decresce
rapidamente e la riconduzione ricorre in modo sommesso alla testa del primo
tema. La Ripresa si apre in modo inatteso: in virtù di una cadenza evitata,
anziché nel tono d'impianto (si bemolle maggiore) il primo tema compare in
quello della sopradominante abbassata (sol bemolle maggiore), che qui assume
evidentemente la funzione di una tonica sostitutiva. È con la ripetizione del
primo tema che viene ristabilita la tonalità d'impianto. Seguono la ripresa del
secondo tema e infine la coda, basata ancora sul primo tema.
L'Andante
un poco mosso ha struttura ternaria. La prima parte (A) si apre con
l'esposizione del tema principale, tipicamente schubertiano nella sua essenza
lirica e cantabile. È quasi un tema di barcarola: la morbida linea melodica
viene intonata dal violino e quindi dal violoncello sul cullante
accompagnamento del pianoforte. Segue una sezione di prosecuzione e sviluppo
del tema: la linea melodica è inizialmente ripresa dal pianoforte, mentre gli
archi disegnano delicati controcanti, quindi ritorna a essere condotta da
violino e violoncello. Concludono motivi che alludono a richiami di corni
esprimendo un senso di poetica lontananza. La parte centrale del movimento (B)
propone il tema secondario di vago sapore zigano nella tonalità del relativo,
do minore, e si articola in due sezioni, la seconda delle quali è costituita
dalla ripetizione, abbreviata e in maggiore, della prima. Pianoforte e archi si
scambiano la condotta melodica in un dialogo cameristico molto raffinato sinché
la seconda sezione non sfuma direttamente nella ripresa della prima parte (A).
Questa offre un percorso tonale ingegnoso e piuttosto movimentato che bene
esemplifica il virtuosismo e la fantasia del linguaggio armonico di Schubert,
sempre pronto nelle opere più mature a imboccare vie inattese e a prospettare
soluzioni che scardinano gli equilibri della forma classica e imprimono al
discorso musicale una qualità divagante e digressiva che ne ritarda la logica
conclusione (secondo i presupposti della forma classica, la ripresa dovrebbe
essere il momento più stabile dal punto di vista armonico). Il tema principale
compare nella tonalità della sottodominante, la bemolle maggiore, adottata come
alternativa alla tonica, quindi in quella lontanissima di mi maggiore (linea melodica
al pianoforte). Soltanto con la ripresa della sezione di prosecuzione e
sviluppo del tema principale si ritorna alla tonalità d'impianto di mi bemolle
maggiore.
Nei Trii
D898 e D929 lo Scherzo ha ormai assunto configurazione e
consistenza assai lontane dall'antico movimento di danza del Minuetto; la
leggerezza di tocco si risolve in una scrittura leggera e vivacissima. Qui la
prima parte è aperta da uri ripetuto motivo discendente del pianoforte e
sfrutta procedimenti imitativi tra i gli strumenti; la seconda parte contiene
una ripresa variata della prima. Dal canto suo il Trio, condotto dalle linee
melodiche di ampio respiro degli archi, ha le movenze di un valzer.
Il finale è
un Rondò in tempo Allegro vivace, riconducibile a uno schema ABC
(Esposizione) A'BC (Ripresa) + Coda. Leggero e staccato, il tema principale (A)
viene esposto dagli archi per essere poi ripreso dal pianoforte. Il primo tema
complementare (B), di natura composita, trae origine da un'incisiva frase
all'unisono. A tale frase sono subito sovrapposte una frase leggera e staccata
in ritmo puntato (violino) e quindi una di terzine legate (pianoforte): sulla
variazione e combinazione di questi elementi si basa il susseguente e divagante
sviluppo del tema che presenta lunghi periodi cantabili accompagnati da
tremoli. Il secondo tema complementare (C), in metro ternario, nasce dalla
combinazione dell'incisiva frase di avvio del tema precedente, trattato come
una specie di ostinato, con il ritmo del tema principale. Nella Ripresa il tema
principale (A) compare dapprima nel tono della sottodominante, mi bemolle
maggiore, quindi in quello d'impianto; segue una breve digressione in metro
ternario che anticipa il ritorno dei temi complementari. La coda, in tempo Presto,
si avvale ancora della onnipresente testa del primo tema complementare e poi di
quella del tema principale.
Cesare Fertonani
Guida
all'ascolto 2
Franz
Schubert compose solamente due Trii per violino, violoncello e pianoforte,
entrambi nel 1827, il penultimo anno di vita. Terminato in estate, il Trio
in si bemolle op. 99 fu ascoltato dall'autore solo in una esecuzione
privata, avvenuta il 28 gennaio 1828. A suonare c'erano tre strumentisti
d'eccezione: il pianista Carl Maria Bocklet, il violinista Ignaz Schuppanzigh e
il violoncellista Joseph Linke (gli ultimi due amici e collaboratori di
Beethoven, nonché interpreti degli ultimi quartetti); come molti dei capolavori
strumentali di Schubert, subì una immediata eclissi, e fu pubblicato postumo
soltanto nel 1836. Più fortunata la sorte del Trio in mi bemolle op. 100,
che, successivo di pochi mesi, incontrò maggiore diffusione esecutiva e fu
anche pubblicato vivente l'autore.
Logico che,
non appena apparso il Trio op. 99 ad opera dell'editore Diabelli, Robert
Schumann ne compisse una recensione sulla "Neue Zeitschrift für
Musik", e tentasse un confronto fra i due lavori, con parole destinate a
diventare celebri e tuttora degne di essere riportate. «Uno sguardo al Trio
in si bemolle maggiore, op. 99 di Schubert, e tutte le angosce della nostra
condizione umana scompaiono, e tutto il mondo è di nuovo pieno di freschezza e
di luce. Eppure, circa dieci anni fa, un altro Trio di Schubert era già apparso
come cometa nel cielo musicale. Era la sua centesima opera; poco dopo, nel
novembre 1828, egli moriva. Questo Trio, pubblicato di recente, mi sembra però
il più vecchio dei due, e anche se stilisticamente non c'è niente che possa
rivelare la sua appartenenza a un periodo precedente, potrebbe benissimo essere
stato scritto prima del familiare Trio in mi bemolle op. 100. I due
lavori sono essenzialmente diversi. [...] mentre il Trio in mi bemolle è
attivo, virile, drammatico, quello in si bemolle è passivo, femminile, lirico
[...]».
Le
distinzioni a cui Schumann alludeva esistono certamente nel contenuto dei due
Trii, anche se non si riferiscono a due impostazioni differenti, bensì a
diverse applicazioni dei medesimi principi. Quali siano questi principi, lo
dicono proprio quelle parole che sembrano più lontane dalla nostra sensibilità
(«tutte le angosce della nostra condizione umana scompaiono, e tutto il mondo è
dii nuovo pieno di freschezza e di luce») e che viceversa valgono a ricordare
una consuetudine dell'epoca: il carattere intrinsecamente "sereno", meno
"impegnato" della musica da camera con pianoforte rispetto a quella
per soli archi, tecnicamente più complessa e concettualmente più profonda.
In
particolare, il genere del Trio, nato alla metà del XVIII secolo non già per
esecutori professionisti, ma per il vasto mercato editoriale dei
"dilettanti" (gli esponenti dei ceti alti, provvisti di una compiuta
educazione musicale), era stato trattato da Haydn e Mozart con contenuti di
disinvolta cordialità, evitando un impegno concettuale piùdito. Il tìtolo,
spesso imposto ai Trii, di "Sonate per pianoforte con accompagnamento di
violino e violoncello" rifletteva il ruolo prioritario dello strumento a
tastiera nella conduzione del discorso musicale, mentre il violino e
soprattutto il violoncello (strumenti più "difficili" per gli
esecutori dilettanti) ricoprivano un ruolo nettamente subordinato.
Lo stesso
Beethoven, che pure, nel corso di un quarto di secolo, aveva di fatto
riequilibrato in modo paritario il ruolo dei tre strumenti, trasformando il
Trio da genere disimpegnato e di puro consumo a veicolo di profonde riflessioni
sulla materia musicale, non aveva mancato di pervadere il Trio op. 97
(il cosiddetto "Trio dell'Arciduca") di quella lieta ed espansiva
melodiosità che si riallacciava in qualche modo alle origini
"intrattenitive" del genere. Questa sorta di "peccato
originario" sussisteva ancora ai tempi di Schubert, e attribuiva al genere
del Trio un carattere amabile e mondano.
Ovvio che
Schubert, compositore che avvertì sempre, nel bene e nel male, il peso
dell'esempio beethoveniano, non potesse mancare di riallacciarsi a questo
esempio, e insieme di cercare di differenziarsi rispetto ad esso. Dunque i due
Trii adottano quel perfetto equilibrio strumentale, quella vasta articolazione
in quattro movimenti e quell'ampliamento interno della forma che
contraddistinguono il Trio "dell'Arciduca", ma
contemporaneamente costituiscono una particolare soluzione, nel campo
"mondano", alla profonda riflessione sulla forma musicale propria
degli ultimi anni del compositore. Non a caso il Trio op. 99 è pervaso
di melodie di impronta liederistica che, in qualche caso, si possono
riallacciare a precisi Lieder schubertiani, Des Sängers Habe, su testo
di Schlechta, nel primo tempo; Skolie, su testo di Deinhardstein, per il
Rondò finale; quantunque non si tratti di citazioni letterali.
Le linee
melodiche di derivazione liederistica sono infatti, per la loro natura
vocalistica, irriducibili a quel tempo di elaborazione, basato su frammenti,
che costituiva l'essenza dello stile classico. Alla crisi del classicismo
Schubert non risponde, come molti suoi contemporanei, con la fuga nel
miniaturismo disimpegnato, ma reinterpretando in modo personalissimo la
dialettica classica, con una successione paratattica di melodie che si
sostituisce all'elaborazione tematica. La logica razionale e stringente del
classicismo viene dunque dilatata e stemperata; viene insomma contemplata in
una prospettiva che non è più di attualità, ma di partecipe rimpianto.
Una prima
applicazione di questi principi la troviamo già nell'Allegro moderato
che apre il Trio op. 99, basato su una melodia energica e di ampio
respiro; presto l'aggressività dei ritmi puntati e delle terzine si stempera
cordialmente e cede il passo ad una seconda idea più lìrica, esposta dal
violoncello; lo sviluppo - aperto dalla prima idea e dominato poi dalla seconda
- ripropone il materiale tematico non in un'ottica di conflitto, ma di
conciliazione, secondo la quale il materiale viene ripreso nelle più diverse
combinazioni strumentali e soluzioni espressive, portando il movimento nel suo
complesso ad assumere delle dimensioni di ampiezza inconsueta.
L'Andante
un poco mosso è una sorta di "notturno", una pagina contemplativa
che vede in primo piano la cantabilità espansiva del violoncello, seguito poi
dagli altri strumenti in suadenti intrecci melodici; è la densa polifonia
"statica" dell'ultimo Schubert, che segue anche qui peregrinazioni
imprevedibili; il movimento è tripartito, con una sezione centrale più agitata.
Segue uno scherzo leggero e scattante, con un Trio cantabile; tempo che
sembrava a Schumann superiore a quello dell'op. 100. Il Rondò
finale è basato su un refrain che presenta in successione quattro ritmi
diversificati; da tali ritmi prendono le mosse i diversi episodi, che si
svolgono sempre nell'ambientazione brillante del refrain, secondo un percorso
che alterna sapientemente periodi strofici ad altri di ampiezza irregolare, con
una condotta ricca di giochi strumentali e di "sorprese" armoniche;
non manca una chiusa ad effetto, a ribadire l'assunto giocoso e
"mondano" dell'intero Trio.
Arrigo Quattrocchi
Guida
all'ascolto 3
FRANZ
SCHUBKRT non scrisse che due Trii, uno in si bemolle, op. 99 e uno in mi
bemolle, op. 100, entrambi composti a breve distanza l'uno dall'altro. L'op. 99
risale precisamente al 1826, a due anni cioè dalla morte del musicista (13
novembre 1828), giunta a lui non inaspettata nonostante i suoi trentun'anni e 8
mesi. La curiosa pagina di diario «il mio sogno» testimonia come la prescienza
della fine giovanile precedesse anche il primo attacco della malattia nel 1824,
proponendo ai biografi schubertiani l'idea di qualcosa d'intrinseco, d'innato
nella sua spensierata anima primaverile. Scrisse l'amico von Bauernfeld: «In
Schubert sonnecchiava una doppia natura. L'elemento austriaco forte e sensuale
dominava nella sua vita come nella sua arte... Se in Sch., vigoroso e felice di
vivere, esso appariva un po' troppo tumultuoso, così nelle relazioni sociali
come nella sua arte, di tanto in tanto scivolava accanto a lui il demone della
tristezza e della mclanconia...». Ed è naturale che negli ultimi anni questa
presenza si facesse più frequente, rendendo umanamente verosimile, la desolazione
del ciclo del Viaggio d'Inverno e la tristezza soave del Quartetto in re
min. detto La morte e la Fanciulla. Ma anche allora l'ispirazione e
la vita continuano nella loro vicenda a due rovesci: il Trio in si b.,
che, solo pochi mesi dividono dal Quartetto in re, offre festosamente al
«viennese felice di vivere» il fascio delle sue melodie.
Il tema
d'inizio è un saluto giocondo, quasi baldanzoso che non incontra contraddizioni
nei successivi; quello che lo segue più da vicino - il secondo tema - risolve
il contrasto d'obbligo opponendo allo slancio dell'altro solo una vocalità
spiegata, ma non meno sorridente, cui s'imparenta sentiinentalmente la
melodia del Trio dello Scherzo. A sua volta il carattere danzante di
quest'ultimo è ripreso e sviluppato con toni fra il popolare e l'infantile, di Kinderlied, nel
finale, dove, in un quadro di vaghe eleganze, (vedi l'apparizione della nuova
melodia in re bemolle), l'inseguirsi dei tre strumenti perde ogni aria di
bravura a profitto del gioco generale. Perfino l'Andante consente a questo
paesaggio sereno di maggio levando quel canto d'affascìnante tenerezza che è
intonato la prima volta dalla, voce affettuosa del violoncello, e ripetuto e
internato nelle trame dei tre strumenti con predilezione, anche se tristezza e
malinconia debbono poi intervenire tingendo di sé con la modulazione quel canto
stesso. La modulazione, d'altronde, è l'arma di queste, il tramite più
spontaneo e permanente della duplice natura di Schubert. Rispetto al
linguaggio strettamente musicale, essa serve a sostenere il ragionamento
astratto, a sostituire i procedimenti dissezionatori e fecondatori insieme
che costituirono lo sviluppo del tema per i classici, in una contemplazione
magicamente cangiante del tema stesso. Ma riguardo all'ispirazione che ogni
cosa motiva, viene alla mente quel che egli aveva confidato: «quando volevo
cantare l'amore, suonava dolore per me. E quando volevo cantare il dolore,
suonava per me amore». Fra questo senso di fluidità e di equivalenza segreta
dei sentimenti e l'arte della modulazione al modo in cui la praticò, il
rapporto è spontaneo. Ed è il mezzo per cui anche nelle più gioconde pagine di
Schubert la luce trascolora subitamente in penombra.
Emilia Zanetti
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